Avvocato quarantaseienne, un master in legge, l’onorevole Lisa Noja prima dell’entrata in politica si è occupata di antitrust e successivamente si è presentata ed è stata eletta nel 2018 nelle liste del Partito democratico, confluita poi nel settembre 2019 nelle file di Italia Viva. Attualmente è membro della Commissione Affari sociali della Camera dei deputati.
Nel settembre 2019 la Camera dei deputati ha votato all’unanimità una mozione presentata da Italia Viva che l’ha vista tra le firmatarie, per la promozione di iniziative istituzionali contro la discriminazione multipla, un tema molto specifico di cui si parla poco. Ci può illustrare cosa s’intende per discriminazione multipla?
L’espressione “discriminazione multipla” si riferisce ad una situazione in cui una persona subisce una discriminazione per due o più motivi, producendo una discriminazione composta o aggravata. Il tema della discriminazione multipla, in Italia è un tema poco conosciuto ed affrontato nel dibattito politico pubblico, ma in realtà s’inserisce nel paradigma americano “dell’intersezionalità” che ha circa trent’anni di storia alle sue spalle ed è ampiamente studiato anche nel nostro mondo accademico. Nel 2006 la questione è stata trattata dall’Onu all’interno della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, dove nell’articolo 6 si parla specificatamente della discriminazione multipla di cui sono spesso vittime le donne con disabilità in ragione dell’intersezione del fattore del genere e di quello della disabilità.
È solo nel 2018 che il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione delle donne con disabilità che “evidenzia le numerose forme di discriminazione multipla trasversale cui sono esposte le minori e le donne con disabilità in tutti i settori, impedendo l’esercizio quotidiano da parte loro di diritti fondamentali e compromettendo la possibilità per le stesse di realizzarsi pienamente”. Con questa mozione abbiamo voluto portare all’attenzione del Parlamento italiano un problema specifico, quello della discriminazione multipla, che colpisce le donne con disabilità e che rappresenta un tipo di discriminazione più grave e penalizzante di quella “semplice”, con l’intento di promuovere iniziative concrete per la lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne con disabilità.
Ci può fare alcuni esempi di discriminazione multipla, citando qualche dato?
Come abbiamo spiegato nella mozione di settembre, pur rappresentando il 16 per cento della popolazione femminile totale in Europa, vale a dire circa 40 milioni di donne, la categoria delle donne con disabilità, in Italia come in Europa, è una delle più vulnerabili ed emarginate. In riferimento alla violenza di genere, è emerso che le donne con disabilità sono colpite con una maggiore incidenza rispetto alle altre (da tre a cinque volte più esposte). Ed ancora, la condizione di donna con disabilità influisce sulla prospettiva di accesso alla formazione e di conseguenza anche al lavoro. Le bambine e le ragazze con difficoltà, dopo l’obbligo scolastico, spesso non vengono avviate a cicli di istruzione che potrebbero anche garantire delle posizioni lavorative più elevate; le donne con disabilità sono spesso escluse da un’istruzione ed una formazione inclusive, e presentano un basso tasso di occupazione: il 45 per cento delle donne con disabilità in età lavorativa (tra 20 e 64 anni) risulta inattivo, mentre per gli uomini la percentuale equivalente è del 35 per cento. Un altro dato che fa riflettere è che i tassi di tumore al seno per le donne disabili siano molto più elevati di quelli della popolazione femminile in generale, a causa della mancanza di strutture e apparecchiature di screening e diagnosi adeguate. Risulta evidente che ancora oggi le donne con disabilità rimangano troppo spesso ai margini, doppiamente discriminate. Non solo la loro condizione è peggiore rispetto a quella delle donne non disabili, ma lo è anche rispetto a quella degli uomini con disabilità.
Quali sono le richieste che vengono avanzate con questa mozione?
La nostra richiesta alle istituzioni è stata quella di promuovere l’adozione di ogni iniziativa necessaria, al fine di assicurare la reale accessibilità per le donne disabili nei settori della salute, dell’istruzione, del lavoro, dello sport, dei trasporti, della pianificazione urbana e dell’edilizia abitativa, come condizione imprescindibile per l’inclusione e la partecipazione alla vita sociale, economica e culturale del nostro paese. In ambito lavorativo la disparità di genere risulta quanto mai evidente. Per questo motivo la mozione insiste sulla necessità di ricorrere ad iniziative volte a garantire il principio della parità di retribuzione a parità di lavoro svolto, anche attraverso l’introduzione di incentivi/sanzioni, per contrastare le discriminazioni salariali esistenti e garantire la parità tra donne e uomini, in particolare per quanto riguarda le persone con disabilità e di promuovere l’inserimento lavorativo delle ragazze e delle donne con disabilità, favorendo il loro accesso a forme di flessibilità adeguate alle specifiche esigenze connesse alla tipologia di disabilità considerata caso per caso, in particolare con riferimento agli orari lavorativi e ai congedi di maternità.
Secondo lei, nonostante l’attuale sistema normativo tenda a favorire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, vengono comunque penalizzate nei luoghi di lavoro?
L’accesso al mondo del lavoro per le persone con disabilità è regolato da una normativa specifica che prescrive una serie di obblighi ai datori di lavoro per le assunzioni. Questi obblighi spesso vengono disattesi oppure applicati in modo “burocratico”. Il passo in più che c’è da fare per ottenere una vera trasformazione è quello di intendere l’inserimento lavorativo della persona con disabilità non solo come un semplice adempimento dell’obbligo normativo, ma come un’occasione di accrescimento per l’azienda, quello che gli americani chiamano diversity, riconoscendo anche la diversità, di qualsiasi tipo, come un fattore di arricchimento per la struttura, incoraggiando una cultura inclusiva che possa creare valore aggiunto attraverso la diversità e l’inclusione. Studi in materia dimostrano che lavorare in un ambiente inclusivo produca un miglioramento del clima aziendale, un minore assenteismo e una maggiore produttività. Per la persona con disabilità deve esserci la possibilità di un avanzamento di carriera e la costruzione di un percorso lavorativo intorno a sé ed alle sue esigenze. In questo senso sicuramente la figura del disability manager può essere d’aiuto, anche se ad oggi sono poche le realtà aziendali che lo hanno istituito.
Una soluzione per realizzare un vero iter lavorativo adeguato alle esigenze della persona con disabilità deve passare necessariamente attraverso la creazione di un rapporto più stretto tra le istituzioni e le aziende, per supportare e seguire le aziende stesse in questo percorso. I centri dell’impiego non dovrebbero funzionare come semplici uffici di collocamento, ma dovrebbero trasformarsi in luoghi di assistenza e sostegno per disegnare un percorso di inserimento lavorativo ad hoc per le persone con disabilità. In passato con il comune di Milano abbiamo avviato un progetto pilota d’inserimento lavorativo che metteva al servizio di una grande azienda le competenze degli uffici degli Affari sociali del comune dove venivano attivati stage che poi potevano trasformarsi in vere e proprie assunzioni. Il successo di questa esperienza ci ha fatto comprendere l’importanza di aiutare l’azienda a capire quale sia il posto giusto per la persona con disabilità, posto in cui potrà essere valorizzato al massimo il suo potenziale e cos’ costruire il percorso migliore per lui/lei. Nel nostro Paese abbiamo fatto passi in avanti sul fronte degli obblighi ma purtroppo siamo ancora molto indietro sul fronte del percorso di vita lavorativo ed esistenziale.
Durante il suo incarico presso la Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati lei è stata sostenitrice di molte proposte di legge a tutela delle persone con disabilità che spaziano dalle politiche sociali, a quelle delle politiche attive del lavoro, a quelle di genere. Ce ne può illustrare qualcuna?
Tra le proposte di legge che ho avanzato come prima firmataria ce n’è una che ritengo importante perché va a sostenere la formazione dei ragazzi e delle ragazze con disabilità che troppo spesso si trovano ad affrontare numerosi ostacoli al proseguimento del loro percorso d’istruzione dopo la scuola dell’obbligo. Muovendo dalla consapevolezza che esistono ancora gravi e reali difficoltà di inserimento lavorativo per i giovani con disabilità, questa proposta di legge prevede una misura che consente di promuovere l’accesso al mondo del lavoro delle persone con disabilità attraverso un incentivo fiscale per le famiglie che hanno un figlio con disabilità il cui reddito sia costituito da borse di studio, assegni, premi o sussidi per fini di studio o di addestramento professionale. Attualmente, secondo quanto previsto dalla normativa vigente in materia, quando l’ammontare lordo annuo delle borse lavoro supera 4.000 euro (se, come di frequente, l’interessato ha meno di 24 anni) la persona con disabilità non rientra più tra i familiari a carico, con tutto ciò che ne deriva sotto il profilo fiscale. Questo paradosso costituisce spesso un disincentivo per le famiglie a fare intraprendere percorsi di formazione essenziali per l’inserimento lavorativo dei ragazzi e delle ragazze con disabilità, con conseguenze gravi per le loro future possibilità occupazionali. Per ovviare a questo vulnus e introdurre una misura che favorisca l’occupazione delle persone con disabilità, la proposta di legge prevede che il limite di 4.000 euro sia elevato a 7.500 euro quando il reddito del figlio è costituito dalle somme corrisposte a titolo di borse di studio o di assegni, premi o sussidi per fini di studio o di addestramento professionale volti all’inserimento lavorativo di persone con disabilità. E’ molto importante capire la centralità del ruolo che ha il lavoro nella vita di una persona disabile. Un’attività lavorativa stabile crea intorno alla persona con disabilità anche una rete di affetti ed amicizie che svolgono una funzione assistenziale e di protezione a supporto di quella familiare.
Non c’è da sottovalutare neanche l’aspetto dell’autorealizzazione, il sapere di dare un contributo alla società ed al proprio Paese. Una volta un professore dell’Università Bocconi di Milano mi fece notare un elemento alquanto singolare a cui non avevo mai pensato: si producono molti dati sul costo che una persona con disabilità ha per lo Stato, ma non ci sono dati sul contributo che questa stessa persona ha sia in termini di produttività, sia in termini di capienza contributiva per le casse dell’erario.
Nel corso del tempo, sia negli atti istituzionali sia nel linguaggio di uso comune, c’è stata un’evoluzione lessi- cale sul modo di definire la disabilità, partendo dal termine handicap, a portatore di handicap, a disabile, a diversamente abile, fino ad arrivare a coniare l’espressione “diversabile”. Questa trasformazione linguistica ha trovato anche una corrispondenza verso un reale adeguamento normativo finalizzato ad una maggiore attenzione verso il mondo della disabilità?
Sicuramente c’è ancora molto da fare. Devo dire, però, che la struttura valoriale sottesa alla Convenzione Onu sta lentamente e faticosamente facendo breccia nella realtà istituzionale. Ne vedo il compimento nei vari progetti di legge su cui stiamo lavorando in Parlamento. La concezione della disabilità deve essere percepita non come una malattia, ma come il risultato dell’interazione tra una menomazione del soggetto (fisica, sensoriale o motoria) e l’ambiente circostante in cui vive quotidianamente. La disabilità è tanto maggiore quanto più il contesto in cui opera è ostile alla problematica che la persona ha. Purtroppo siamo ancora indietro sul tema del progetto di vita, non solo in ambito normativo ma proprio a livello di prassi sociale. Fino ad ora abbiamo immaginato che il punto centrale della politica sociale fosse quello della monetizzazione risarcitoria, invece d’individuare un percorso generativo, per aiutare la persona disabile a trovare la sua strada, accrescere la sua autostima e la sua autonomia. Insomma, un sostegno alla propria realizzazione esistenziale oltre che lavorativa.
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