Il business non può profanare la vita

Dedichiamo questo numero all’agricoltura. Quindi alla terra, alle produzioni, alla vita. E mai come in questo periodo il valore di ogni esistenza andrebbe tenuto presente. Perché il triste elenco dei decessi per Covid non può essere affidato soltanto ad un freddo numero. La morale dovrebbe continuare a costituire un punto fermo nella nostra società ormai secolarizzata. Compresa quell’etica del capitalismo che non può cedere di fronte ad una società dominata unicamente dai consumi. Eppure non c’è giorno in cui quel sottile confine tra umanità e alienazione venga oltrepassato. Analogamente si supera ormai con indifferenza e noncuranza il limite della decenza. Ricordiamo tutti, ad esempio, quell’incredibile telefonata dopo il terremoto dell’Aquila, un sisma che qualcuno evidentemente giudicò come manna dal cielo per i propri affari. E, seppur su un piano diverso, il progetto della Superlega nel calcio, la degenerazione di uno sport che da oltre un secolo investe le passioni di miliardi di individui sul Pianeta, sacrificato in nome del solo business. 

Ma è soprattutto il Covid che ci sta facendo scoprire una società sempre più cinica, che in molti “scivoloni” nelle dichiarazioni di amministratori o imprenditori fa emergere la prevalenza dell’economia sulla vita: gli anziani sarebbero improduttivi, per cui il loro sacrificio sembra quasi necessario rispetto alla riconquista di una sorta di “normalità”, che poi tanto normale non è. Pensiamo, anche, a quanto sta facendo emergere la Procura di Trapani. Se dovesse essere confermata la presunta falsificazione del flusso di dati verso l’Istituto Superiore di Sanità da parte di alcuni funzionari della Regione Sicilia, il nostro sdegno non può certo essere minore. In sostanza sembra che per non far finire l’Isola in zona rossa, siano stati forniti numeri inferiori e addirittura aggiunti un migliaio di tamponi in un giorno. 

Più volte abbiamo denunciato su questo sito – e nel nostro libro “Covid e dintorni” (a pagina 141 il capitolo “Calcoli che non tornano”) – la diffusa superficialità nel gestire i numeri della pandemia, spesso trasformati in strumenti politici. Ad esempio: perché è successo più volte che in una singola giornata sia stata recuperata una precedente e cospicua mole di dati? Perché in una lunga fase solo alcune Regioni hanno conteggiato insieme i tamponi molecolari e quelli antigienici mentre altre non lo hanno fatto, finché in modo molto discutibile – come avviene oggi – molecolari e antigienici vengono assemblati in tutta Italia per abbassare il tasso di contagio? E perché non sappiamo, ad un anno dall’inizio della pandemia, quante persone si salvano e quante no dopo la terapia intensiva? Per non parlare della “colorazione” delle Regioni, con il rosso considerato quasi una punizione e non un fattore di salvaguardia della salute pubblica e soprattutto con risultati non certo esaltanti in un’eterna altalena tra giallo e rosso che ha prodotto un numero di decessi da primato europeo (solo il Regno Unito finora ha più morti per Covid di noi). 

Emblematico quanto successo in Sardegna, dove il bianco ha fatto ripiombare subito la regione in arancione, ma anche in Abruzzo, in Molise o in Valle d’Aosta. E ancora: perché in una certa fase il Lazio è passato in arancione, nonostante una crescita continua di ricoverati e di terapie intensive? Davvero il tanto criticato indici Rt può costituire un affidabile fattore di previsione? I più gravi effetti di questa pandemia, una volta terminati come ci auguriamo tutti, dovrebbero lasciare spazio a serie inchieste. Perché tante situazioni di difficoltà hanno fatto emergere proprio il lato peggiore di noi esseri umani, tra business facili sulla salute degli altri, numeri che non tornano, strumentalizzazioni politiche, “furbetti” che hanno saltato le file per i vaccini, inchieste su documenti presumibilmente insabbiati nonostante avrebbero potuto alleviare il problema. 

L’agricoltura, quella più sana, trionfo della natura e della vita, ci potrebbe insegnare tante cose. 

 

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