l futuro dell’Italia, le sue sorti economiche e sociali, sono legate alle scelte messe in campo oggi. Stiamo vivendo uno di quei momenti della storia che segnano uno spartiacque tra un’era e un’altra, che contraddistingueranno inevitabilmente il volto che il nostro Paese avrà tra venti o trent’anni.
Con l’impatto, per certi versi inaspettato, che ha avuto la crisi sanitaria da Covid 19 sulle vite sociali ed economiche, sia del singolo cittadino sia degli Stati a livello globale, è diventata sempre più urgente la necessità di creare e mettere in pratica provvedimenti di politica economica che non solo pongano rimedio alle difficoltà venutesi a creare, ma che soprattutto abbiano strategie e generino effetti, rilevanti e durevoli, senza i quali gli agenti economici in atto non possono mettere in moto i cambiamenti necessari per una rinascita strutturale. Se infatti si cade nell’errore di creare un legame tra l’incertezza dovuta alla crisi pandemica con risposte poco convincenti di politica economica, quel possibile meccanismo di ripresa rischia seriamente di incepparsi.
Il momento che stiamo vivendo è cruciale. Come evidenzia un interessante approfondimento del Sole 24 Ore, “la stima del reddito pro-capite italiano in seguito alla crisi Covid 19 indica meno 4.300 euro; dopo essere aumentato fino al 2007, il reddito reale medio degli italiani è tornato oggi ai livelli di fine anni Ottanta. Sulla traiettoria su cui ci troviamo, saremo destinati a far parte dei Paesi europei in ritardo di sviluppo quando invece nel 1990 l’Italia era nel gruppo di testa. Serve una rotta chiara per dare significato alle misure, e per tracciare la rotta serve un approdo”.
Decreti Ristori, incentivi, bonus e su tutti Recovery Plan. Tanto si è discusso in questi mesi sulle mosse fatte dal nostro governo nel tentativo di delineare una strada da perseguire. Dalla centralità dell’industria come scintilla essenziale per riprendere una strada di rinascita, alla consapevolezza di una collocazione sempre più attiva al centro dell’Unione europea, che guarda con particolare attenzione a come il nostro Paese risponderà alla sfida
a cui ci chiama il Recovery Fund. Oggi, malgrado la crisi e dopo aspre contrattazioni, il governo ha approvato la proposta del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Ma il progetto che sta costruendo l’Italia ha davvero al suo interno quella visione a lungo termine, necessaria per riprendere un percorso virtuoso interrotto da troppo tempo? Per capire meglio su che strada stiamo viaggiando, abbiamo ascoltato l’opinione del professor Giulio Sapelli, storico ed economista.
Professor Sapelli, come giudica la proposta del Recovery Plan italiano?
“Il Ricovery Plan è un insieme di proposte e di iniziative troppo variegate. Al contrario, occorreva focalizzare il lavoro su pochi, ma grandi investimenti. Precisamente su tre aree fondamentali. La prima, le infrastrutture: è essenziale portare a termine le grandi opere pubbliche in essere. Secondo punto, il digitale, ma ponendo l’accento sulla capacità di potenziare le cosiddette autostrade informatiche. Si fa un gran parlare del 5G, ma oggi le evoluzioni in atto ci hanno portato già oltre.
Quindi è necessario smetterla con tutta la polemiche sulla rete unica che non ha alcun senso. Il terzo grande punto è la ricerca spaziale. Abbiamo ormai la consapevolezza che tutte le future tecnologie verranno dalla ricerca spaziale. Non è un caso che il capitalismo nordamericano, che è il più avanzato del mondo, oggi punti ad andare su Marte. Ripeto, bisognava scegliere pochi settori e investire su questo. Senza poi dimenticarci che è fondamentale una profonda riforma della nostra organizzazione sanitaria. Bisogna ripuntare sui grandi ospedali pubblici e soprattutto sulla medicina territoriale preventiva, così come era nella legge sanitaria del 1978 che è stata abbandonata in questi ultimi trent’anni”.
Pensa che le misure contenute nella legge di Bilancio o nei numerosi “Decreti Ristori”, possano dare l’impulso per ripresa economica?
“Per far ripartire l’economia occorreva innanzitutto avere un’attività statistica più seria di quanto non si sia fatto adesso. Noi della pandemia non sappiamo nulla o quasi perché non abbiamo fatto nessun cluster scientifico serio. Non abbiamo seguito gruppi di imprese o gruppi di scuole quindi i nostri dati scientificamente sono inaffidabili. Parlo di statistiche non di virologie o di studio del virus. Per fare ripartire l’economia bisogna soprattutto sburocratizzare, abbassare le tasse sulle attività produttive e fare investimenti privati e pubblici diretti alle attività produttive che aumentino il tasso di profitto capitalistico e soprattutto aumentare i salari, oggi i più bassi in Europa, sotto addirittura ai salari portoghesi e greci. Se non si agisce in questo senso avremo una deflazione secolare che continua ad affossare anche i tassi di profitto. Se continuiamo su questa strada, non potremo mai ripartire economicamente. Bisognava fare poche cose che permettessero di ripartire con investimento in capitale fisso, invece che con i ristori o con cose del genere.
Dobbiamo salvare l’industria manifatturiera e l’agricoltura in particolare, con le grandi tecnologie. Purtroppo aver speso decine e decine di miliardi per sostenere attività improduttive è stato un errore fatale che ci porteremo dietro”.
I vari sgravi introdotti per le imprese, ad esempio la decontribuzione per il Sud, crede quindi che non siano sufficienti?
“Alcune di queste cose vanno fatte, ma più mirate. Serve una politica economica che miri a favorire le attività resilienti, non certo che punti su un’attività economica, ad
esempio fondata sul turismo, per la maggioranza in nero, o sull’attività che fa la movida. In questo modo non avremo mai un futuro per i giovani. Il futuro per l’economia e i giovani è la piccola e media industria, è un turismo e una ristorazione all’altezza delle grandi catene internazionali o delle imprese di famiglia come quelle che hanno in Francia in Svizzera o in altri grandi Paesi. Il governo doveva fare investimenti più mirati e non a pioggia in modo sconsiderato come adesso”.
Parlando di giovani e, come lei accennava prima, gli investimenti sulle nuove tecnologie, qual è il suo giudizio sulla Dad, la didattica a distanza?
“Penso che la didattica a distanza si debba fare soprattutto quando è necessario farla, come ad esempio in pericolo pandemico. La cosiddetta Dad io l’ho già fatta in America latina trent’anni fa, però in generale un’educazione umanistica o scientifico tecnologica a distanza non funziona molto bene. L’educazione è sempre stato un patto etico tra il docente e il discente. Non è un mistero che, ad esempio, nelle università americane il livello degli studenti non sia molto alto. Ripeto la Dad va bene, ma limitata al periodo di pandemia”.
Chi è
Giulio Sapelli è nato a Torino nel 1947, dove si è laureato in Storia economica nel 1971 e ha conseguito la specializzazione in Ergonomia nel 1972. Ha insegnato e svolto attività di ricerca presso la London School of Economics and Political Science tra il 1992 e il 1996, nonché presso l’Università autonoma di Barcellona nel 1988-1989 e l’Università di Buenos Aires. È stato professore ordinario di Storia economica presso l’Università di Milano, dove insegnava anche Economia politica e Analisi culturale dei processi organizzativi.
Ha lavorato con compiti di ricerca, formazione e consulenza presso l’Olivetti e l’Eni e ha svolto incarichi di consulenza presso numerose altre aziende. Dal 1996 al 2002 è stato consigliere di amministrazione dell’Eni. Dal 2000 al 2001 è stato consigliere governativo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena. Dal 2002 al 2009 è stato consigliere di amministrazione di Unicredit Banca d’Impresa. Dal 1993 al 1995 è stato il rappresentante italiano di Transparency International, organizzazione che lotta contro la corruzione economica e dal 2002 è tra i componenti del World Petroleum Council, organizzazione internazionale non governativa con lo scopo di promuovere l’uso e la gestione sostenibile delle risorse petrolifere mondiali. Dal 2003 fa parte dell’International Board per il no-profit dell’Ocse.
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