Lockdown e smart working

Era l’8 marzo di un anno fa. Iniziava il lockdown per la regione Lombardia. Il giorno seguente il premier Conte, con il primo Dpcm, lo estenderà all’Italia intera che diventerà “zona protetta” annunciandolo a tutti gli italiani, in una conferenza stampa rimasta impressa nella mente di ognuno di noi. Ci informava che il virus correva, riempiva gli ospedali, le terapie intensive e provocava tanti decessi e che non c’era tempo da perdere. Dovevamo tutti cambiare le nostre abitudini, per tutelare la salute di tutti noi, consapevole che stava chiedendo di farlo subito, nell’immediatezza, dal giorno dopo. Ci si poteva spostare solo per lavoro, necessità o salute. 

Da quel giorno aziende e famiglie si sono dovute riorganizzare, cambiando radicalmente le modalità di svolgimento delle attività lavorative gli uni e i propri stili di vita le altre, cercando di conciliare lavoro e vita privata. Più di 8 milioni di lavoratori, per limitare spostamenti e ridurre il rischio di contagio, hanno iniziato a lavorare da casa ma in maniera poco “smart”. Anche noi, come ufficio, abbiamo attivato lo smart working con tutte le perplessità, le incertezze e le novità che si accompagnavano alla nuova forma di lavoro e ci sembrava impossibile poter svolgere le nostre mansioni in un luogo diverso dall’ufficio. L’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di digitalizzazione obbligando le aziende, ma penso anche la nostra pubblica amministrazione, ad adeguarsi in un tempo brevissimo. Secondo l’Istat, in Italia, l’incidenza dello smart working, tra marzo e aprile, è salita al 21,6 per cento nelle imprese di medie dimensioni (era il 2,2 per cento nei mesi di gennaiofebbraio) e al 31,4% in quelle di grandi dimensioni (contro il 4,4 per cento dei primi due mesi dell’anno). 

I dati su alcune indagini svolte nelle aziende sul gradimento per lo smart working, hanno dimostrato che un lavoratore su due si dice molto contento di lavorare da casa, l’esperienza si è rivelata funzionale e produttiva, oltre che necessaria. Ma le famiglie come hanno gestito questa nuova condizione che ha cambiato la vita alle persone che, fino a quel momento, non si erano mai confrontati con tale modalità di lavoro?
Le emozioni percepite da tutti i lavoratori sono state quelle di ansia, tristezza, frustrazione, paura, insonnia e agitazione. Ed è rilevante sapere che tutti questi effetti sono stati provati in misura maggiore dalle donne. C’è stata un’evidente difficoltà da parte di queste, soprattutto quelle occupate a tempo pieno, nella conciliazione tra vita privata e lavoro, che ha portato ad un diffuso malessere psicologico e ad un grande stress. Quello che la quarantena forzata e lo smart working hanno fatto emergere, molte volte amplificandolo, è il gap di genere esistente nelle relazioni familiari, nelle condizioni di lavoro e nei sentimenti prevalenti rispetto al futuro; possiamo parlare quasi di un ritorno al passato in cui la donna è chiusa in casa ad occuparsi di figli e faccende. La quarantena, quindi, ha rafforzato degli stereotipi di genere, come per esempio quello che vede le donne impegnate nella cura della casa e dei figli e gli uomini dediti, soprattutto, al lavoro (considerando che 89 per cento di loro ha passato il lockdown dedicandosi esclusivamente a quest’ultimo). Le donne hanno pagato e continuano a pagare un prezzo altissimo alla crisi economica generata dalla pandemia. 

Molte sono state le donne che hanno perso il lavoro, o che hanno deciso di lavorare di meno, lasciando magari, quello scarsamente pagato o precario. La perdita di occupazione è risultata più intensa, in quanto i settori più colpiti sono stati quelli dei servizi, ristorazione, alberghi, turismo, famiglie dove le donne non solo sono più presenti, ma anche più precarie e irregolari. Da marzo 2020 sono state le donne ad aver fatto molta fatica a dividersi tra lavoro e vita familiare, a districarsi tra lavori domestici e didattica a distanza. La presenza di figli ha aumentato l’impegno ed è stato ancora più difficile conciliare, spesso in spazi casalinghi ridotti, esigenze lavorative dei genitori ed esigenze didattiche e di gioco dei figli. Se vogliamo fare una riflessione sul rapporto tra lavoratrici e smart working, certo non possiamo considerare i mesi di lookdown come vero smart working. È stato altro e cioè obbligo di lavorare da casa in un momento in cui le scuole erano chiuse e gli aiuti familiari come baby sitter e aiuti in casa erano fermi, creando un enorme carico di lavoro finito principalmente sulle spalle delle donne lavoratrici e non. 

Finita la fase emergenziale, molte aziende hanno scelto di continuare ad utilizzare questa modalità e così l’Italia si è adeguata ai Paesi del Nord Europa dove tale realtà lavorativa è già consolidata da diversi anni. Il “lavoro agile” sembra comportare numerosi vantaggi per imprese e lavoratori: le prime possono risparmiare in termini di costi fissi per uffici, promuovere soluzioni organizzative orientate al lavoro per obiettivi, a rafforzare l’autonomia e la responsabilità dei lavoratori; i secondi possono gestire meglio la loro vita privata, contare su orari flessibili e lavorare con minore stress e, in questo momento, tutelare maggiormente la propria salute a fronte delle possibilità di contagio Covid-19. Per molte donne il tempo recuperato dallo spostamento in macchina o con i mezzi, specie nelle grandi città è tempo prezioso da dedicare a sé stesse. Il “terzo tempo” delle donne verrebbe finalmente riconosciuto, il tempo in cui possono dare spazio ai propri desideri e passioni. Quello che viene rilevato è l’importanza di lavorare in un ambiente che garantisca la parità di genere che le aziende dovrebbero dimostrare attraverso una cultura e politica aziendale che garantisca ai dipendenti con figli, di entrambi i generi, la flessibilità di cui hanno bisogno durante e dopo la pandemia. 

È emerso, infatti, come i lavoratori le cui aziende hanno attivato iniziative di supporto (supporto psicologico, sostegno al reddito, coperture assicurative, iniziative a supporto della genitorialità, iniziative a sostegno della conciliazione lavoro-famiglia) mostrano livelli più elevati di performance e di soddisfazione lavorativa, identificazione con l’azienda e minori livelli di stress. È importante, però, che le aziende mettano in atto forme di partecipazione e progetti formativi condivisi che contrastino il rischio di isolamento dei lavoratori e possano ovviare, quindi alla mancanza di socialità lavorativa che lo smart working ha come risvolto. Così come non deve creare discriminazioni salariali di alcun tipo. La scelta di continuare a lavorare impiegando i lavoratori da remoto ha portato ad un altro fenomeno molto importante per il Mezzogiorno: il South working, lavorare dal Sud. Un fenomeno che, se approfondito e studiato bene, può essere una vera rivoluzione nel mondo del lavoro che punta ad abbattere divari e disparità tra Nord e Sud e che può creare una reale condizione di rilancio per questa parte del Paese. Questo fenomeno, oltre ad arginare la famosa “fuga di cervelli”, può rappresentare un’opportunità per le donne di poter trovare lavoro più facilmente, scegliere il fulltime piuttosto che il part time, non essere costrette a sacrificare il desiderio di essere mamme. Il declino demografico è una delle più grandi emergenze del Paese, il rinvio della nascita di un figlio, dovuto a difficoltà “del momento”, spesso si traduce in rinuncia definitiva: senza adeguati sostegni e riconoscimenti le coppie faticano a realizzare i loro progetti di famiglia. Se il trasferimento in una città diversa dalla propria, per motivi di lavoro, comporta normalmente un disagio emotivo, affettivo ed economico (spese di trasloco, fitti di casa più elevati, abbonamenti ai mezzi pubblici ecc.) i costi di trasferimento di una neomamma risultano insostenibili (asilo, mensa scolastica, babysitter, ecc.). La possibilità di poter restare nella propria città potrebbe neutralizzare queste criticità e favorire un ritorno economico non indifferente, incrementerebbe i consumi e creerebbe un indotto per il territorio. In generale sposterebbe l’economia in zone diverse, nei piccoli centri, ripopolandoli, cambiando il mercato immobiliare, facendo crescere il valore delle case situate fuori dalle sempre più afose e invivibili città. 

Infine, un’altra importante conciliazione che può essere attribuita allo smart working è quella tra lavoro e ambiente, potrebbe arginare l’inarrestabile crescita delle emissioni di CO2; semplicemente restando fermi si ridurrebbe l’inquinamento dell’aria ma anche quello acustico, convincendo anche coloro che non accettano misure ambientali se sono incompatibili con la crescita economica e renderebbe l’aria delle nostre città più salubre e allo stesso tempo meno caotiche. Favorire l’incremento dell’occupazione femminile dev ’essere uno degli obiettivi che il Recovery fund deve assolutamente avere perché questo, non solo, farebbe crescere il Pil nazionale ma sicuramente farebbe diminuire la povertà e si attenuerebbero le diseguaglianze sociali. Sarebbe importante accrescere l’ingresso delle donne in quei settori scientifici che permettono uno sbocco lavorativo più veloce e maggiormente retribuito e intervenire per eliminare gli ostacoli che le donne incontrano nel corso della vita lavorativa. Entrano più tardi, in settori peggio retribuiti, hanno più interruzioni del lavoro, con i bambini piccoli ricorrono al part time, rinunciano spesso a incarichi impegnativi e così hanno percorsi di carriera più lunghi e difficili che si concludono anche con livelli di trattamenti pensionistici del tutto inadeguati. 

Lo smart working gestito in modo flessibile e più consono alle esigenze delle donne può rappresentare un’opportunità di sviluppo economico non solo di genere ma un’occasione di rilancio per l’intero Paese con ricadute importanti sull’intera società e sull’ambiente, assicurando uno stile di vita più soddisfacente, più salutare, più adeguato alle esigenze di ognuno di noi. 

 

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