Si sente sempre più spesso parlare di inclusione lavorativa, di pari opportunità, di abbattimento delle discriminazioni di genere sul posto di lavoro, e quasi ogni volta si pensa che i soggetti chiamati in causa siano soltanto donne, persone con disabilità oppure appartenenti ad etnie diverse. Nella maggior parte dei casi è così, ma oggi includere solo questi gruppi sociali quando si affrontano certe tematiche risulta riduttivo ed anacronistico. Le società sono in continua trasformazione ed il mondo del lavoro deve adattarsi e seguire il flusso dei cambiamenti in atto per creare realtà fattivamente inclusive che diano spazio a tutti e permettano di ottenere risultati più performanti in termini di progresso, quantità e qualità.
Una recente ricerca condotta dalla società di consulenza strategica McKinsey ha dimostrato come la diversità in ambito aziendale possa agevolare l’innovazione, aiutando a riconsiderare modi di pensare radicati e migliorando le prestazioni finanziarie. Le organizzazioni imprenditoriali possono trarre pieno vantaggio dalle prospettive di una forza lavoro diversificata solo se i suoi membri, siano manager o dipendenti, percepiscono realmente di essere accolti al lavoro per quelli che sono, dando la possibilità di contribuire in modo significativo all’interno della realtà lavorativa. Abbracciando questo nuovo punto di vista dell’inclusività, nelle aziende si è fatta strada la figura del Diversity Manager, cioè colui che si occupa di mettere in atto pratiche e politiche che tendano al rispetto di tutte le diversità all’interno del posto di lavoro, al fine di valorizzare al massimo l’unicità di ogni singolo lavoratore.
Secondo i dettami del Diversity Management “il termine diversity vuole rappresentare un concetto molto ampio che non riguarda solo una tipologia di persone, ma consiste nell’accettare che in ogni epoca in cui viviamo, ogni gruppo sociale è contrassegnato da particolarità e differenze che possono riguardare l’età, le abilità così come la cultura, ma anche l’appartenenza etnica, l’orientamento sessuale così come quello religioso e l’identità di genere”. Quindi non solo donne, persone con disabilità ed etnie diverse, ma anche lavoratori e lavoratrici con orientamenti sessuali ed identità di genere diverse, lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer (LGBTQ+). L’ampliamento della prospettiva di inclusione ed uguaglianza nel mondo del lavoro ha segnato un radicale cambio di rotta rispetto a qualche anno fa, quando la tendenza dominante era quella di appiattire, anziché valorizzare, le differenze tra i dipendenti, collaboratori e manager, perpetuando un modello aziendale statico che cercava di annullare le diversità dei lavoratori in nome di un uniformismo universale.
La battaglia per la promozione dell’uguaglianza e della non discriminazione in ambito lavorativo, partita dapprima come solitaria rivendicazione delle associazioni a tutela dei diritti delle donne e del movimento LGBTQ+, con l’accentuarsi di avvenimenti di discriminazione di genere e di omotransfobia, è stata man mano accolta da più parti, venendo riconosciuta anche in ambiti istituzionali. Già nel messaggio del 2015, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, Guy Ryder – direttore generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) – sosteneva essenziale “favorire i luoghi di lavoro nei quali tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori ricevano lo stesso rispetto e le stesse opportunità di carriera. I lavoratori LGBT hanno il diritto di non essere discriminati sul lavoro. Inoltre, diventa sempre più evidente che promuovere la diversità può portare vantaggi alle imprese.
Come ogni forma di comportamento discriminatorio, il pregiudizio in funzione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere può essere un ostacolo al reclutamento o alla promozione del candidato più qualificato per un lavoro. La diversità fra i lavoratori può portare nuove idee e nuovi modi di fare le cose, a vantaggio dell’innovazione e della redditività; nell’era della globalizzazione, con mercati che si estendono oltre ogni frontiera, la diversità fra lavoratori può anche dare un’immagine migliore della diversità dei nuovi mercati. Non c’è quindi da meravigliarsi che in tutto il mondo numerose grandi imprese di successo abbiano adottato strategie per la diversità che includono il rispetto dei LGBT”. A chiusura del discorso, Ryder dichiarava che “Paesi sempre più numerosi si adoperano per adottare leggi che vietano le discriminazioni in funzione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, sul lavoro e non solo. Anche alcune misure che non sono specificatamente collegate al luogo di lavoro possono interessare il mondo del lavoro. Nonostante innegabili progressi, […] c’è ancora molto da fare. L’Organizzazione assume l’impegno di promuovere luoghi di lavoro nei quali i lavoratori LGBT siano accettati e possano lavorare senza temere stigmatizzazioni, discriminazioni, molestie o violenza. Il lavoro dignitoso significa il rispetto dei diritti di tutti”.
L’appello del direttore dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, contro le discriminazioni di genere ed i pregiudizi verso lavoratori e lavoratrici omosessuali è stato formalmente recepito e portato avanti nel tempo, tanto da rappresentare, almeno in parte, il quinto obiettivo per lo sviluppo sostenibile fissato dall’Onu nell’Agenda 2030. Il quinto goal in realtà, pone esplicitamente l’attenzione sulla parità di genere come “diritto umano fondamentale, condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. Garantire alle donne e alle ragazze parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici, promuoverà economie sostenibili, di cui potranno beneficiare le società e l’umanità intera”. Non si parla espressamente degli altri tipi di discriminazioni basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, ma non si preclude uno sviluppo dell’obiettivo dell’Agenda 2030 in questa direzione. È un prendere atto della perdurante disparità della condizione lavorativa femminile, sacrificata da sempre nella sua realizzazione a causa della coincidenza con la figura di caregiver in ambito familiare, che impone alla donna lo svolgimento di una pluralità di mansioni, sistematicamente combinate tra loro, con un sovraccarico di lavoro da un punto di vista materiale e psicologico e la conseguente mancata specializzazione nelle attività più riconosciute socialmente ed economicamente, quasi sempre ad appannaggio maschile. Il divario tra lavoro maschile e femminile non è solo qualitativo, quantitativo ed apicale, ma anche retributivo, il cosiddetto gender pay gap, derivazione diretta di un insieme disuguaglianze sociali che le donne devono affrontare nell’accesso al lavoro, nella progressione e nei premi. Anche se la Costituzione italiana con l’articolo 37 ha fissato la parità della retribuzione nel lavoro maschile e femminile, nonostante l’apparente sdoganamento della donna dalla figura di “angelo del focolare domestico”, la strada verso le pari opportunità è ancora lunga per le donne.
Così come per le disparità di genere in ambito lavorativo, anche per le altre discriminazioni legate agli orientamenti sessuali ed alle identità di genere è necessario un intervento da parte del legislatore, una tutela che dovrebbe rappresentare un primo passo, necessario ma non esaustivo, per la scomparsa di qualsiasi discriminazione sul posto di lavoro.
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